Ed eccomi qua.
Guscio, pantaloni da trail, Salomon ai piedi, t-shirt ad asciugatura rapida.
Ma, soprattutto, una luce negli occhi che non ho mai avuto.
Io che la montagna l'odiavo, che ho passato l'infanzia a tormentare mia madre - innamorata delle sue cime - perchè non sciavo, non andavo per sentieri, odiavo il freddo, la neve, il camino.
E adesso guardami. Non vedo l'ora che sia domani, che parta il conto alla rovescia. Che l'urlo salga alto al cielo.
Che c'entra un "cittadino" come me col Tor Des Géants?
Io che corro in pianura, pedalo in pianura, nuoto in pianura, che ci faccio a uno degli ultratrail più duri del mondo?
Distanze e dislivelli che, solo a pensarci, tremano i polsi, le cervella, le budella. 330 km, 24.000 m D+, 150 ore di tempo.
È tutta colpa della fatica. Quella che amo fare, quella che, da qualche tempo, non posso fare a meno di raccontare.
Mi chiamo Simone Sarasso e di mestiere faccio lo scrittore.
Scrivo di banditi e imperatori, di malandrini e di antichi dei. Sempre più spesso, sento il bisogno di narrare le gesta di chi è pronto a dare tutto per inseguire un sogno. Per immaginare di sfiorarlo con la punta delle dita.
A volte vado a caccia di una storia per anni e ogni tanto sono le storie che vengono a cercare me.
Da qualche mese sto lavorando a un nuovo libro.
Una faccenda di sudore e muscoli allo spasmo, di sogni enormi e cuori sconfinati.
Avrei dovuto seguire un'amica al Tor. Avrebbe corso, camminato, sognato e sudato. E io avrei raccontato ogni passo. Ogni respiro.
Ma la sfiga ci si è mesa di mezzo e la mia amica non partirà insieme agli altri.
Ho pensato a lungo se rinunciare a esserci, dopo il suo infortunio.
Ma so che lei non me l'avrebbe permesso.
Così, eccomi qua, sotto la pioggia.
Courmayeur è fredda e bollente: il cielo lacrima, e allo Sport Center c'è un viavai atomico. Atleti del Sol Levante, atleti con la bandiera cinese cucita sullo zaino da 70 litri, atleti che parlano francese, inglese, bergamasco.
In fila, ordinati e rispettosi, il materiale addosso, pronto per il controllo.
Trascorro un paio d'ore a scrutarli, a rubare istantanee, sospiri, concentrazione. Avvisto Michele Graglia, vado a stringergli la mano.
Ci siamo scritti, non c'eravamo mai visti di persona. Abbiamo lo stesso editore: la storia di Michele, scritta da Folco Terzani, è uscita qualche mese dopo la mia biografia di Loris Capirossi. Entrambe per Sperling & Kupfer.
Michele ha una bella luce in viso. Fuoco e promesse da mantenere. Voglia di rivincita. L'anno scorso la sua avventura è finita troppo presto.
Ci abbracciamo: domani. Domani è il gran giorno.
Nella Sala Polivalente il rito dei pettorali è al suo apice.
I ramponi son sulla bocca di tutti, la direzione di gara parla della neve che verrà. Che ci aspetta tutti quanti, lassù.
Incontro Franco Faggiani, il responsabile della comunicazione del TOR.
Parliamo tanto, Franco è innamorato della montagna e di questa avventura per cuori sconfinati. Franco è una persona speciale.
In sala stampa l'atmosfera si fa elettrica, ma è alla presentazione dei Top Runner che la mia voglia di partire, di infilare un passo dopo l'altro sui sentieri, diventa incandescente. La musica, gli applausi, il calore della gente, gli sguardi e i sorrisi degli atleti.
Mi manca la mia amica. Mi manca sul serio ma so che essere qui, oggi, con una caviglia inservibile, sarebbe stato troppo doloroso per lei. Ha deciso di rimanere a casa. Mi si spezza il cuore a immaginare cosa sta provando.
Poi la festa mi travolge. Mi bevo ogni immagine, ogni basso che esce dalle casse.
Ceniamo al Palasport, dopo aver ascoltato il briefing.
Ci emozioniamo. Cantiamo, perfino, tenendoci per mano: è una tradizione.
Torno in hotel frastornato ed euforico: ho le vene d'argento, la pelle elettrica.
Scrivo: è così che leggo il mondo.
Scrivo che è buio pesto. Voi leggerete col sole alto.
Nove ore e mezza alla partenza, la sveglia suona tra sette.
Non lo so mica se riuscirò a dormire.
È la carezza prima dell'uragano.
Buonanotte, TOR.
Buongiorno.
Buon viaggio.