Angelo Raffino è un giovane giornalista-viaggiatore piemontese. Lo scorso anno ha seguito il Tor da bordo campo per Radio Capital. Quest’anno ha deciso di tornare a parlare di Tor, sempre per la stessa importante emittente nazionale, ma da dentro. Ovvero in gara. Una “decisione” che ha cambiato un bel po’ la sua vita quotidiana, per dieci lunghi mesi. Ecco come ce la racconta.
“Dicono che il Tor sia un viaggio. Spirituale e fisico. Un insieme di emozioni che ti segna dentro, da qualche parte, un po' nel cuore, un po' nella testa. Magari con l'aggiunta di qualche livido. E, quasi certamente, nella migliore delle ipotesi, un paio di vesciche.
Dicono, e ho sentito dire, molte cose sul Tor.
Buona parte di esse le ho vissute in modo indiretto, seguendolo da giornalista. Altre storie le ho ascoltate da amici e conoscenti che si sono cimentati: soggetti pari e dispari nella vita di tutti i giorni ma accomunati da quella identica luce che si accende nei loro occhi. Un “clic” che scatta alla parola “Tor”. E giù un profluvio di aneddoti e consigli.
I giornalisti raccolgono informazioni, vagliano le fonti, approfondiscono la notizia, riportano i fatti. E in alcuni casi, dove è possibile, si espongono e immergono in prima persona.
11 Settembre.
Courmayeur si avvicina.
È il punto di inizio. Ma i viaggi hanno sempre una lunga vigilia. Nel mio caso durata dieci mesi, ancor prima di sposare questa grande avventura, preparandomi per altre eventualità.
Ho usurpato ore della settimana e del weekend agli affetti, agli amici, alla famiglia, allo svago e alla banale pigrizia. Ho dedicato ore e ore al rispetto di me stesso, di un impegno da onorare, di un obiettivo sperato. Al rispetto di chi sarà lì, come me, tra qualche giorno, zaino in spalle e una sacca gialla a peregrinare da un punto all'altro della Valle d'Aosta.
Quello che mi affascina e mi emoziona, oggi, è infatti l'idea di una comunità viaggiante, riunita all'idea di una meta dove, forse, arrivare. Di un tragitto da compiere. Del sudore e della fatica versati già in anticipo, per dedizione. Quella messa in campo da chi è andato a correre all'alba, prima di una giornata di lavoro. Da chi ha trovato la forza di farlo la sera. Da tutti coloro che hanno incastrato gli impegni, impilandoli in una torre pendente. A chi ha consumato pasti in piedi. A chi, almeno una volta, ha conosciuto un fisioterapista, una tendinite, un callo, una storta. A chi ha cercato nella pioggia l'inutile conforto per saltare un allenamento. A chi ha consumato suole, macinato terreno in salita, strizzato borracce, fatto l'amore con le ore, imparando a plasmarle e dilatarle nella propria testa, a servizio delle gambe e della tenuta mentale.
Alla vigilia del Tor vivo questa immensa sensazione di rispetto, per me stesso, per quello che ho fatto e per quello che avete fatto. Tutti voi. Tanto o poco che sia. Non sarà mai stato inutile. Se non altro perché l'unico modo di gestire l'imprevedibile - perché questo è il Tor - è farsi trovare alleggeriti dai rimorsi.
L'ho imparato in questi mesi, superando lo steccato che separa il racconto per immedesimazione da quello in presa diretta.
L'attesa ha già portato i suoi frutti”.