Il TOR non si può raccontare: al massimo è possibile esprimere alcune sensazioni.
Ecco le mie. Il resoconto è lungo, ma è stato impossibile per me ridurlo ancora.
I giorni prima della partenza, l’avvicinamento a Courmayeur. Il senso di inadeguatezza, la frase che mi ronza in testa: non ce la puoi fare, è tutto troppo grosso. Troppo.
Gli amici che ridono e scherzano e ti chiedono come mai sei teso: se va male ti ritiri, dicono.
Le notti insonni. La partenza, 11 settembre. Adrenalina, eccitazione. Tutto pronto. Zaino in spalle. Sparisce la voce “non ce la puoi fare”. Spariscono tutte le voci. C’è solo il desiderio di partire. Guardo le scarpe degli atleti intorno a me. Arcobaleno di colori.
La giornata è bellissima, un meteo perfetto. Lo speaker pronuncia un milione di frasi per caricare gli atleti. Ne dice una che mi aiuterà alla fine: “quando penserete di non farcela, quando avrete dolori ovunque, quando deciderete di mollare pensate a questi ragazzi (i Maratonabili, ragazzi obbligati su sedia a rotelle): loro vorrebbero essere al vostro posto e non possono".
Si parte. Nuovo fuso orario, mai sperimentato prima. Le gambe girano bene. Il mantra del momento è: non correre mai, sopratutto in discesa, in questa gara vince chi non si rompe e tu non sai quanto sei resistente, non correre anche se vorresti.
Passano le ore, passano i paesi, passano i ristori. Il tifo amplifica la falcata.
Passo da posti dove vengo osannato come un eroe che torna dalla guerra; penso al grido “Massimo, Massimo, Massimo” ne “Il gladiatore”. Ecco, tutti sanno il mio nome, scritto grosso sul pettorale. E tutti mi chiamano per nome e mi fanno coraggio. Non ci sono mica abituato, eh!
Il TOR non comincia subito. I primi km fanno finta di essere come tante altre gare. I paesaggi sono mozzafiato. Ad un momento si vede un arcobaleno fantastico, la fortuita presenza di una persona a me cara rende ancora più speciale questa visione!
Spesso penso di non essere sulla terra, ma in un pianeta incontaminato. Le vallate verdi, le franate, i colli, i monti giganti, i ghiacciai, le mucche e le malghe, i torrenti, i ruscelli, le cascate, i laghi. Solo il panorama vale ogni goccia di sudore versato e lo varrà per tutto il viaggio.
Il TOR inizia a guardarti dentro dalla prima notte. L’atto di accendere la frontale per la prima volta mi esalta, ho sempre amato camminare di notte ma in questa lunghissima gara ci sono tante notti davanti, e saranno sempre più faticose. E’ fantastico illuminare le bandierine catarifrangenti che segnano il percorso e vedere che loro ti gratificano mostrandoti la sinuosità del cammino da seguire.
La prima base vita è una scoperta per me: un piccolo paese con ristorante, dormitorio, infermeria. C’è un nuovo tormentone da imparare: arrivare, comunicare il numero, prendere la borsa, farsi la doccia, mangiare, dormire un’ora o due, andare in bagno, rimangiare, consegnare la borsa, comunicare che si parte, partire.
La stanchezza ancora non si fa sentire. Nemmeno la fatica mentale; le gambe, i piedi, le articolazioni, tutto sta andando bene: solo dolori “normali” e del tutto accettabili; passa la prima notte, passa il secondo giorno. I colli, irti ed aspri si lasciano salire quasi con facilità. Arrivano i primi 100 km. Ci siamo, il TOR adesso sa come ti chiami e aspetta silenziosamente il momento in cui ti metterà alla prova.
La notizia destabilizzante arriva il mercoledì: verrà un grosso temporale con cambio di clima. Ed in effetti è così. Cambia il clima, si passa dall’estate all’autunno in poche ore. A me però questa notizia non fa impressione. Per giorni mi sono portato dietro tutto ciò che di meglio posseggo per andare in montagna, pagandone ovviamente il peso sulle spalle: sono quasi contento dunque di poter usare quel che ho nello zaino. Va tutto bene anche se piove o tira vento: sono preparato. Ed infatti arriva grandine, vento, pioggia, freddo. Mai una goccia passa i miei indumenti.
Certo, quando è brutto tempo è tutto più complicato. Fare ancora più attenzione a dove metti i piedi, usare sempre i guanti, guardare avanti solo quando è necessario altrimenti l’acqua ti bagna il viso. E poi, c’è il problema dell’assenza della luna che con la sua luce rende le notti speciali, meravigliose. Peccato. La fatica ovviamente arriva per tutti, la somma di km e la privazione del sonno mangiano poco a poco le riserve di energia. Per me, la fatica, si fa sentire vigorosa durante le albe. All’alba infatti cala la tensione di dover illuminare ogni singolo passo… ti rilassi un po’… però è anche il momento più freddo della giornata: la bassa temperatura mi avvolge senza che io possa opporre resistenza. Non è un freddo da congelarsi, è un freddo che intorpidisce, rendendo i passi meno piacevoli. Mi sento un po’ come wall-e… in attesa del sole per ricaricare le batterie!
Arriva poi il momento in cui il TOR ti vuole assaggiare. Vuole metterti alla prova. Lo fa con tutti. Lo ha fatto ovviamente anche con me con una caviglia che, nel giro di pochi km, inizia a far male prima e a bloccarsi letteralmente dopo. E’ questo il momento in cui devi dimostrare a te stesso che sei pronto ad affrontare le avversità. Non mancano 10 km all’arrivo; non ne mancano nemmeno 50. Nemmeno 100. Mancano 120 km all’arrivo. centoventi! Sono un po’ tantini eh?
Bendaggi, ghiaccio, creme… nulla da fare. il dolore non si attenua. il desiderio di smettere, di tornare a casa, di riprendere la vita quotidiana mi assale più volte. La frase che mi dico è sempre la solita “al prossimo ristoro, se mi portano via con l’elicottero, mi ritiro”. Ma le mie labbra quella frase non l’hanno mai pronunciata.
Il dolore è così forte che penso ad un altro evento della mia vita: quando mi capitò di avere una colica di reni. Lì però non avevo idea di quando arrivasse il dolore. Nel caso della caviglia, sono io il carnefice di me stesso. Ogni volta che il mio piede tocca terra sento male. Un male sopportabile nel suo semplice atto, ma anche un male ritmico, un male che si ripete non so quante volte al minuto…scandito dalla mia velocità di cammino.
Le salite sono un sollievo: questo dolore si attenua magicamente. Però le discese diventano infernali: fermarsi non serve a nulla, rallenta solo il momento in cui potrò trovare del ghiaccio da mettere sulla caviglia. Ottimizzo ogni passo, cercando di fare sempre meno fatica nella progressione: diventa quasi un gioco: passa dì lì, no aspetta ruota il piede e sali su, ora gira sull’erba, non caricare il piede su quella roccia.
Al TOR, devi trovare delle motivazioni km per km. E, in quel momento, mi torna alla mente la frase dello speaker: “quando penserete di non farcela, quando avrete dolori ovunque, quando deciderete di smettere pensate a questi ragazzi: loro vorrebbero essere al vostro posto e non possono". Cavolo, speaker, grazie! Questa è benzina, benzina! Io riesco a mettere un piede davanti all’altro, seppur con dolore, e continuerò a farlo! Le notti continuano a susseguirsi. tra tutte le cose che ho visto c’è un ricordo meraviglioso: un gruppo di caprioli che dormono si staglia contro la luna. Si vedono decine di corna e tanti occhietti illuminati dalla frontale. Che spettacolo. La stessa notte una stella cadente divide il cielo in due. Ho espresso, come sempre, un desiderio. Non ne vedo tante di stelle cadenti, per cui il desiderio l’ho dovuto ragionare bene. E no, non era legato alla gara. E no, non si è ancora avverato.
Passo i rifugi, i colli, i bivacchi. arrivo al fatidico km 300. Manca relativamente poco. Arriva anche l’informazione che i metri di dislivello non sono 24.000 … ma 30.000: il percorso è stato cambiato rispetto alle volte precedenti, ma ormai non ha più importanza. C’è una sorta di trance che mi pervade. Arriva l’ultima salita, quella verso il Malatrà. Il TOR mi aspetta lì, sull’ultimo colle. Il premio tanto ambito. Nevica, tira vento. La frontale illumina i fiocchi di neve sparati verso il mio volto. Guardo per terra e vedo il sentiero che sale, sale, sale. La neve aumenta e servono i ramponcini. Non so dove mi trovo, ma, ad un certo punto, nella roccia vedo due gradini di metallo. Alzo gli occhi e con voce commossa chiedo alla guida alpina se ero arrivato al colle. Lui mi dice di sì e mi chiede se sto bene. La mia risposta affermativa, con una voce piuttosto tremante, lo induce a chiedermi se ero commosso. Quando gli dico “si, sono felice”, lui si leva il guanto e mi porge la mano. “Sei un gigante” mi dice, facendomi scoppiare in lacrime!
Inizia una discesa infinita. Ad un certo punto arriva l’ultima alba. E con l’ultima alba faccio per l’ultima volta il gesto di prendere la frontale e spegnerla. Mi mancherà quel gesto.
La paura di farmi male aumenta esponenzialmente. Per la prima volta faccio qualche km senza il sorriso sulla faccia.
Arrivo all’ultimo rifugio, prendo velocemente un po’ di frutta secca, saluto tutti, e scendo verso Courmayeur trascinando il mio corpo stanco e dolorante tra rocce, alberi e ruscelli.
Ogni persona che incontro si ferma e, applaudendo, mi dice “bravo bravo, fantastico”. Io mi sento piccolissimo. Entro in paese. Vedo il traguardo, ci arrivo correndo: lo faccio per onorare l’enorme pubblico che aspetta tutti noi atleti. Stremato, felice, incredulo e di nuovo allegro faccio fermare il cronometro a 144 ore. 144 ore di cammino. Non è mai stata una gara, per me. Per me è stato un viaggio. Sono partito da Courmayeur e sono tornato a Courmayeur diverso, arricchito, felice e forse anche più maturo.
La testa ha retto e, a parte la caviglia, anche il fisico. Il TOR mi ha guardato dentro, mi ha svuotato e mi ha riempito. Alla fine mi ha accolto donandomi sensazioni fantastiche, momenti indimenticabili, panorami pazzeschi, sia di giorno che di notte.
Il giorno dopo, entrando in un bar, vestito con jeans e maglietta, chiedo brioche e caffè. Mangio. Chiedo il conto. "Tre euro" mi dice la signora, e poi aggiunge “mi scusi, ma lei ha fatto il TOR? Mi permetto di chiederlo perché vedo il viso un po’ provato”. Sì, rispondo.
Mi ha ridato i tre euro.