“Ed è malinconia”
Ha partecipato, suo malgrado, a tante docce, tanti lavaggi di piatti e pavimenti; ormai minuscole pozze d’acqua gli si sono infilate tra l’involucro di plastica ed il chip. S’è sgualcito, poveretto; qualche volta ho già pensato di rassegnarmi, tagliarlo e riporlo nella scatola dei cimeli... Ma per ora, a distanza di quasi un mese, è ancora lì, fedele. Più luminoso di un brillante, più prezioso di un gioiello d’oro bianco.
Il braccialetto con il logo “Courmayeur Trailers”. Te lo stringono al polso poche ore prima della partenza, quando tu ancora non sai che quel laccio avvolgerà il tuo cuore di corridore di montagna per il resto dei tuoi giorni. Non solo per la settimana della corsa.
Già. Il Tor non è una gara qualsiasi. E non perché è lunga oltre 330 km, perché ti infligge 24.000 m di dislivello positivo, perché ti costringe a tante notti insonni, perché ha un grafico altimetrico da fare invidia ad un elettrocardiogramma. Il Tor è un pellegrinaggio. È una collezione di albe glaciali dai colori infuocati, di pomeriggi inondati dalla luce accecante dei tremila metri di quota, di notti tempestate di stelle, di fulmini rabbiosi che schioccano sulle rocce di una pietraia, di lucine artificiali che disegnano al buio il profilo del sentiero su un pendio lontano, di bandierine gialle che s’inseguono in un crescendo ossessivo, di occhi che si chiudono, di ombre che esistono solo nella mente annebbiata, di unghie che si staccano, di bastoncini che ticchettano sulle pietre in una musica sempre più lenta e stanca, di campanacci di mucche, di baite e pastori, di fruscii di foglie e di animali nelle tenebre, di piatti con la fontina e la mocetta, di vesciche ai piedi, di sorrisi, di sospiri, di momenti in cui sembra di morire e di coraggio che torna a scorrere nelle vene quando il colle tanto sudato è finalmente sotto le suole delle scarpe.
Il Tor è meraviglia, rabbia, sconforto, gioia, desolazione, sfinimento, pianto, allucinazione, sonno, è morire e risorgere. È una vita intera concentrata in sette, sei giorni, anche meno, se sei veloce.
Il Tor si scava una nicchia nel tuo cuore e da lì, ogni giorno della tua esistenza, ti farà sentire la sua voce; magari sommessa, sottile, magari un breve semplice richiamo, ma tu non mancherai di percepirlo. Almeno per un momento, ogni giorno, tornerai a faticare sugli sfasciumi del Col Loson, a sentir la testa che gira affacciandoti al vuoto oltre il Colle della Vecchia, a sorridere ammirando la luna piena mentre arrivi al Rifugio Sogno, a lambiccarti il cervello per capire se ce la farai a rientrare nei cancelli orari, a sognare una branda e una coperta, ad accasciarti addormentato contro una roccia qualsiasi di un sentiero qualsiasi, a sentire le gambe sfinite che pure vogliono correre sull’ultima asperità del Col Malatrà.
No, il Tor non è una gara qualsiasi, perché non c’è gioia quando arrivi alla fine. Non può esserci gioia, perché lì, sotto l’arco del traguardo di Courmayeur, c’è la fine di un sogno. Il tempo di smaltire l’euforia, di lasciare finalmente terreno libero al sonno, e poi ti piomberà addosso, inesorabile, la malinconia.
Ti rimarrà il braccialetto, per illuderti, se chiuderai gli occhi per un momento, di essere ancora lassù. E ti sorprenderai a pensarci per sempre, giorno dopo giorno.
È il “mal di Tor” e non c’è cura.
di Giancarla Agosti
Spirito Trail, Novembre 2011